Leonardo

Fascicolo 12


in "Manipoli"
Un pittore dell'abbattimento (Emilio Zoir)
di Gian Falco (Giovanni Papini)
pp. 21-22


p. 21


p. 22



   Carlo Emilio Zoir è uno svedese, come lo scultore Edström. Ma dell'anima nordica egli ha più la tristezza che l'ironia, il dolore raccolto che il ghigno sarcastico. È un doloroso che singhiozza più che un doloroso che irride.
   Moralisti sono l'uno e l'altro. C'è nelle loro opere tutto il puritanismo biblico che la Bibbia, assieme al gelo, fece dominante nei paesi di Svezia e Norvegia. Sono uomini che non vedono più esattamente la vita perchè vedono troppo il male della vita.
   Emilio Zoir è un maestro di virtù, anzi è un maestro di pietà. Egli mi diceva un giorno che lo scopo dei suoi quadri era quello di far sentire ai ricchi le miserie dei poveri, ai felici gli stenti dei miserabili. La sua arte, dunque, è francamente tolstoiana. E un insegnante di compassione e un predicatore di carità. I suoi quadri sono delle appendici ai giornaletti socialisti e agli opuscoli umanitari.
   Un simile uomo appartiene al suo tempo. Egli ha visto che l'arte non è più una gioia solitaria o la festa di un popolo. Figlio di un'età industriale ha voluto, come tanti altri, che anche l'arte servisse a qualche cosa e siccome oggi è in grande onore la religione della sofferenza egli ha fatto un corso di raccapriccio applicato altruismo.
   Se voi contemplate i suoi quadri non sperate di trarne godimento. Scacciate dal vostro cuore simili profane e peccaminose intenzioni. Egli vuol mostrarvi il male, la miseria, il dolore, la tristezza, il freddo, la fame, il pianto. Le sue tele e le sue acqueforti sono abitate da vecchi colle teste reclinate che s'incontrano senza far parola con vecchie pensierose, di uomini che piangono sotto gli alberi e di donne che si trascinano nella neve. Invece del sole trovate la notte o il crepuscolo boreale, invece della bella famiglia d'erbe e d'animali qualche cipresso funereo o qualche arbusto spasimante. Perfino gli alberi in lui sono simboli del dolore: io ricordo una sua acqueforte ove un tragico olivo si contorce bizzarramente in un'alba livida.
   Egli vuol far piangere, e veramente le sue figure fanno piangere. Riesce a dare il senso dell'abbattimento, della stanchezza, della ripugnanza in un modo indicibile.
   Gli è che questo buon gigante dagli occhi chiari e dalle mosse impacciate è restato sempre, malgrado che abbia studiato a Parigi e vissuto a Firenze, un uomo del nord, cresciuto in una terra povera, dura, fredda, fra uomini silenziosi e femmine addolorate. Egli ha sentito profondamente l'ansia della vita meschina ed oscura della sua gente.
   L'Italia, la dolce e pana Italia, non l'ha ancora riscaldato ed egli vede il nostro paese attraverso le nebbie e le lacrime. Ma, per contrasto, egli riesce a farcelo amare di più; all'edizione tolstoiana del mondo noi preferiamo sempre la vecchia edizione leonardiana, ornata di cieli limpidi e di sorrisi sensuali.


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